Spesso, quando il pubblico generalista pensa a un “fan”, è facile che emergano alla mente prima significati negativi piuttosto che quelli positivi. Molti dei termini associati a questo mondo – da “fanatico”, appunto, a “otaku”, a “geek” o a “nerd” – nascono del resto nella cultura di massa con una sfumatura spregiativa prima di maturare in qualcosa d’altro.
Ai più saltano in mente immagini di ragazze che strillano e lanciano reggiseni sotto gli spalti di un concerto, di personaggi chiusi in casa ad attaccare ossessivamente ai muri foto dei loro idoli, di lettere d’amore inviate a VIP di varia natura – persino criminali famosi. I fandom studies hanno svolto un gran lavoro negli ultimi decenni per donare profondità a questo stigma, arrivando fondamentalmente a una quadratura: essere fan è un modo, peculiare, di entrare in relazione con l’altro, e che perciò può godere di tutti i vantaggi e svantaggi di qualunque altra relazione – affetto, stima, ammirazione, ma anche possessività, gelosia, rivalità, avversione.
La delicatezza del rapporto tra una qualunque figura pubblica e un suo fan è dettata dal fatto che, a differenza della maggior parte delle relazioni che si intessono nella vita, è basata su uno squilibrio che è portante: si tratta fondamentalmente di due estranei che, però, sviluppano una forma di co-dipendenza talmente forte da essere paragonata a rapporti più concreti. Il fan ha un investimento emotivo tale, spesso, da rendere quell’affezione capace persino di influenzare decisioni importanti, poiché il cervello reagisce alla persona ammirata, da un punto di vista neurologico, come se si trattasse di una persona amata e/o incontrata nella vita reale.
L’inghippo è che il personaggio pubblico non si ritrova nelle condizioni di poter restituire quel carico emotivo in maniera proporzionale: è dipendente dagli ammiratori ma non conosce la loro faccia, la loro voce, le loro intenzioni. E ciò che per il fan è attenzione focalizzata, spesso esclusiva, per l’ammirato riguarda più la relazione con un gruppo umano che con un singolo individuo.
Il corto circuito si innesca quando il fan percepisce questa impossibilità di feedback come una sorta di “non restituzione” rispetto al suo investimento emotivo.
«Non sono pazzo, penso solo che sia da stronzi non rispondere ai fan. Ti abbiamo aspettato al gelo per quattro ore e tu semplicemente hai detto “no”.»
Sono le parole di Stan (diminutivo di Stanley, ma anche contrazione di “stalking fan”), il personaggio inventato dal rapper Eminem nel 2000 nell’omonimo brano, ispirato alle migliaia di lettere che l’artista aveva ricevuto tra il primo e il secondo album. Le persone si riconoscevano nella sua storia, nella sua sofferenza, nei suoi sfoghi, lo seguivano, volevano emularlo e, in cambio, si attendevano un minuto del suo tempo, una sua firma: un pezzo di lui. Eminem nel brano immagina l’ossessione portata ai suoi massimi estremi del delitto, ma non serve nemmeno la fantasia: basta pensare tra decine di esempi possibili alle storie vere di Mark David Chapman, omicida del suo idolo John Lennon, o di John Hinckley Jr., che tentò di assassinare il presidente Reagan allo scopo di “far colpo” su Jodie Foster. «Negli ultimi sette mesi ti ho lasciato dozzine di poesie, lettere e messaggi d’amore nella debole speranza che tu potessi sviluppare un interesse per me» scriveva all’attrice.
Nella sezione Virtual Reality Expanded della Mostra del Cinema di Venezia è presente in concorso Killing a Superstar, una sorta di Cluedo in versione realtà virtuale dove lo scopo del gioco è dipanare l’omicidio di un’attrice famosa. È interessante che una delle prime informazioni che viene fornita al “giocatore” sia che questa donna riceveva delle lettere minatorie da un fan apparentemente squilibrato, aspetto che pone fin da subito una sorta di bias cognitivo nella risoluzione del caso. Realtà dei fatti o modo più facile per depistare le indagini? Il grosso non detto è che la fama porta con sé questa sorta di consequenziale “stato d’assedio” in cui il VIP non si sente più padrone di se stesso ma diventa soggetto a una sorta di costante invasione senza volto. Non è un caso se Stephen King ha fatto proprio di una fan il “mostro” di un suo horror – la Annie Wilkes di Misery, portata poi sullo schermo dalla bravissima Kathy Bates. In quest’opera è descritta tutta la devozione malata di un’ammiratrice per una saga letteraria: ella vuole a tutti i costi che la storia prenda una piega che assecondi le sue aspettative, al punto da ridurre in schiavitù lo scrittore. Il personaggio ammirato viene, di fatto, oggettificato, trasformandosi nell’incubatrice inerte del suo prodotto creativo – il libro ma anche il film, o il personaggio interpretato.
Sebbene quando pensiamo al lato oscuro dell’essere fan tendiamo a inquadrare il personaggio che riceve passivamente fanatismo come una sorta di “vittima” impotente (come in Misery, appunto), in realtà il web dal 2.0 in poi ha generato risvolti imprevisti e altrettanto inquietanti, che in questo caso riguardano proprio il soggetto ammirato.
Nell’era dei social, infatti, l’ossessione può anche essere quella del personaggio noto che diventa dipendente dal numero di follower e che vive gli alti e bassi del suo seguito – online, soprattutto – come il metro su cui misurare il proprio valore umano. È ciò di cui lateralmente tratta il film Mainstream di Gia Coppola con Andrew Garfield e Maya Hawke tra i protagonisti, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di quest’anno. Il focus della pellicola ruota attorno al paradosso – non così lontano della realtà – di un soggetto che proprio sulla sua avversione verso i social media costruisce la propria fama su YouTube, salvo poi diventarne la creatura più rappresentativa e assieme mostruosa. I fan – sempre senza volto – dell’influencer sono affamati di contenuti e di significato e l’influencer, nello strenuo bisogno di mantenere il ritmo delle loro attenzioni, arriva a creare quei contenuti fino al punto in cui essi diventano il loro esatto contrario: forma.
Un altro film presente quest’anno alla Mostra ne parla lateralmente, Fucking with Nobody (opera prima della svedese Hannaleena Hauru), dove due amici si fingono una coppia da dare in pasto a Instagram, scrivendola passo passo a tavolino per appagare la curiosità e la prurigine prima dei conoscenti, e poi degli sconosciuti.
Si arriva a generare apparenza per soddisfare la fame di realtà dei follower. Ed è un’apparenza intossicante, che va a incidere poi sulla vita vera, una sorta di giostra da cui non è poi facile scendere. In tutto il mondo, si sono già dati dei casi di influencer che hanno dovuto staccarsi dai social media come degli alcolisti dalla bottiglia, intraprendendo percorsi di auto-aiuto: l’affermazione del sé, aspetto fondamentale per chiunque, diventa letteralmente ubriacata dai numeri.
La complementarietà tra creativo e fan è che entrambi desiderano la risposta dell’altro per appagare un bisogno – di identità e autostima da un lato, emotiva dall’altro – e come tutti i dialoghi, può avverarsi come incontro ma anche come scontro. Una cosa che, infatti, abbiamo ormai appurato nei rapporti tra uomo e donna – o di coppia in generale – è tanto più valido in questo caso: essere messi su un piedistallo può apparire una prospettiva meravigliosa di primo acchito, ma la stessa persona che ha posto lì sopra qualcuno può tirarlo giù come niente non appena se ne sente delusa, e la caduta può fare molto male.
Già negli anni Novanta, la studiosa di media Joli Jensen nell’introduzione del suo saggio The Adoring Audiencenotava come la società tende non solo a focalizzarsi su questi estremismi del fan, ma addirittura a qualificare poi come diretta conseguenza l’essere fan stesso come patologia, una sorta di condizione clinica a parte. Oggi sappiamo, anche se certi pregiudizi resistono, che spesso sono solo pretesti: persone fragili che, soffrendo di forme di ansia sociale già a monte, “dirottano” il loro bagaglio emotivo su destinatari virtuali e/o impersonali, i quali non necessariamente sono elementi della cultura di massa ma possono riguardare forme di dipendenza in generale, droga, alcol, cibo, sport. La Jensen conclude che il fan non è, rispetto alla società, un elemento “altro”, ma siamo tutti fan in qualche misura (anche un tifoso di calcio lo è, di fatto) e in quella passione convogliamo il nostro equilibrio, il nostro bagaglio emotivo, i nostri traumi, i nostri sogni: ciò che siamo.
di Francesca Bufera