Netflix ha recentemente reso disponibile Black Mirror: Bandersnatch, episodio interattivo collegato all’omonima serie: un nuovo modo di fare TV o un esperimento che prende il tempo che trova?
Read the article in English at agnesepietrobon.com
Sono già passati alcuni giorni dall’uscita di Black Mirror: Bandersnatch e noi a fanheart3 siamo decisamente in ritardo con i tempi. Non solamente non ne abbiamo parlato subito come hanno già fatto numerosissime pagine, ma io stessa ho fatto lo sforzo di vederlo solamente oggi.
Una mancanza imperdonabile, direbbero alcuni, per chi si occupa dei temi che amiamo seguire, visto che Bandersnatch sembra essere esattamente quello di cui dovremmo interessarci: un prodotto che apertamente supera la linea fra consumatori e produttori e rende il pubblico parte integrante della storia, personaggio che determina le azioni degli altri personaggi.
Un’idea entusiasmante apparentemente, di fronte alla quale mi sono però dovuta confrontare con tre questioni:
- sono nata negli anni 80. I librigame erano pane quotidiano per noi, tanto che hanno trovato una grande diffusione proprio in quel periodo (per poi perdere buona parte del pubblico nei decenni successivi)
- parliamo di culture partecipative ormai da 20 anni. Per noi fan che ne facciamo parte l’idea di essere co-autori di una storia, rielaborandola (anche artisticamente con materiale come fanart e fanfictions), diventare, insomma, qualcosa di più di consumatori – non è certo una novità
- con le nuove potenzialità della VR in ambito cinematografico (e non solo), un’idea come quella dietro Bandersnatch sembra quasi un passo indietro rispetto alle possibilità offerte da questa tecnologia
Insomma, tre cose che hanno messo in me qualche dubbio sull’efficacia di questa operazione e soprattutto sul concetto “innovativo” ad essa spesso associato.
Dopo aver guardato il film, essere andata un po’ su e giù con le opzioni e sostanzialmente aver avuto voglia di un acceleratore di immagini per mandare avanti le scene che si ripetevano, ho capito che, almeno per quanto mi riguarda, la sensazione iniziale era abbastanza confermata.
Dal punto di vista della mera costruzione del prodotto, sicuramente la possibilità di dirigere le scelte del personaggio principale è un punto interessante, ma qualcosa che avvicina la visione più all’esperienza dei videogiochi stile Telltale che a quella di un film/telefilm.
Il vantaggio che invece va sicuramente citato – un vantaggio più “narrativo” – è il fatto che il protagonista è almeno in parte consapevole che noi spettatori esistiamo e che modelliamo le sue azioni anche quando cerca di impedirlo. Ed in effetti, da questo punto di vista, tutta le scene che si sviluppano dopo l’opzione “Netflix” (e non aggiungerò altro per evitare eccessivi spoiler) sono quelle che più mi hanno entusiasmato, com’era nell’intenzione della serie stessa che afferma tranquillamente la cosa poco dopo che si è scelta quella strada.
Al tempo stesso, però, anche la visione inquietante che permea l’intera trama – quella di una potenza superiore che disegna i destini dei personaggi e la loro mancanza di scelta – è decisamente familiare: partendo da Matrix, emblema del concetto, per arrivare, certo con altre sfumature, a Person of Interest o Mr Robot, il confine fra illusione, psicopatologia e l’idea che il mondo attorno a noi sia governato da figure minacciose su cui i personaggi non hanno il controllo totale “tira tantissimo”, per usare un linguaggio colloquiale, nel cinema e in televisione.
Accanto a ciò – e qui parlo più a titolo personale visto comunque il successo riscontrato nei social – Bandersnatch ha un fondamentale problema: è vero che come fan tutti vorremmo determinare le scelte che fanno i nostri personaggi del cuore (qualcuno mi dia una versione di Captain America: Civil War che possa governare e vedrete se poi qualcun altro avrà da obiettare sulla bellezza della Stony), ma prima devono diventare i nostri personaggi del cuore.
In Bandersnatch mi sono sentita davvero poco coinvolta nel destino di questo personaggio che non solo non avevo mai visto prima, ma con il quale sono riuscita a creare pochissima empatia (se non forse nelle scene in cui mi si rivolge direttamente): un background e conflitti interiori tristemente veritieri e sicuramente pesanti, ma visti e rivisti, a cui in più si accompagna un distacco proprio per la caratterizzazione del personaggio che forse con più episodi avrei potuto anche superare ma che un’ora e mezza non è stata sufficiente a farmi dimenticare.
Chiude il discorso la questione “opzioni”. Ho certo provato alcune scelte differenti, ma la cosa mi è venuta a noia velocemente: ad un certo punto semplicemente non vedevo l’ora di chiudere, alla faccia dei molteplici finali. Ma qui devo dire di essermi ricreduta, perchè dopo la già citata opzione “Netflix” mi si è aperto un mondo (relativamente breve) e lì sì avrei potuto continuare a giocare perchè, anche a livello di genere cinematografico, improvvisamente ci troviamo davanti a quell’entertainment che la psicologa sembra aver profetizzato. Insomma, se avessi avuto davanti un film d’azione interattivo, probabilmente avrei vissuto un divertimento più superficiale, meno da intellettuali e intrinsecamente “trash”, ma certo non avrei avuto questo sottile desiderio che mi ha attraversato per tutte le due ore di visione di chiudere l’esperienza il prima possibile.
Qui sicuramente si fanno sentire i gusti personali, ma certo anche questa è una questione da considerare se si ipotizza di creare più prodotti in questo format.
In ogni caso, a differenza di quanto mi è successo quando ho provato per la prima volta la VR, questo esperimento interattivo non ha cambiato il mio modo di percepire le possibilità future offerte dal settore cinematografico. Vedremo se i prossimi esperimenti confermeranno o meno questa impressione generale.
1 commento
I commenti sono chiusi.